CIAMPINO – Un territorio che nasconde splendidi segreti e storie avvincenti

Ciampino

Un territorio che nasconde splendidi segreti e storie avvincenti

Una città di circa 38 mila abitanti ─ divenuta Comune nel 1974, a seguito della separazione da Marino ─ con un grande aeroporto e una notevole confusione edilizia. Questa è l’idea che di Ciampino si ha comunemente.
Poco si conosce della sua storia urbana, inghiottita nello sviluppo edilizio che dagli anni sessanta si è impadronito di questo territorio, territorio che nasconde splendidi segreti e storie avvincenti.
Innanzitutto il nome. Il nome si fa risalire a un prelato della Curia Pontificia, Giovanni Giustino Ciampini (morto nel 1698), proprietario di un casale che sulle mappe catastali viene indicato come il Casale di Ciampino, nel contesto di un ampio territorio agricolo indicato come Vigna Ciampini.
La piana di Ciampino vanta la nascita di primi insediamenti e di estese canalizzazioni già nel periodo del Bronzo Antico per arrivare a quello del Bronzo Finale (con abbandono della popolazione nel periodo del Bronzo Medio).
La storia di questa città è fortemente legata alle infrastrutture e alla volontà di soggetti “decisi” ad agire sul suo territorio e a trasformarlo: dagli acquedotti e dalle strade di epoca romana; alle ferrovie, inquadrate nel piano infrastrutturale voluto da Pio IX; all’aeroscalo caldeggiato da Maurizio Valentino Mario Moris; alla città giardino che vide come soggetto promotore la Cooperativa Colli Parioli, all’aeroporto.
Per questo Ciampino ha giocato tre ruoli: quello di importante nodo di collegamenti territoriali, viari e ferroviari, quello di “sostegno” residenziale al territorio, nonché quello di luogo di “recepimento” e “promozione” di modelli culturali europei (futurismo, a proposito dell’aeroscalo e movimento inglese delle città giardino).

Si comincia con l’acqua. La piana, successivamente alle canalizzazioni cui si è accennato, con la sua conformazione degradante verso Roma, è stata la via degli acquedotti romani. Qui, infatti, furono realizzati gli acquedotti dell’Acqua Tepula, Giulia, Appia, Alessandrina, Vurgo, Anio Vetus, Anio Novus, Claudia nonché il famoso acquedotto dell’Acqua Marcia.

Si continua con le strade. Già dall’epoca romana con la realizzazione della via Appia (312 a.C.), la zona si pone come via di penetrazione verso il sud. Ma all’Appia si aggiungeva anche un altro antico tracciato, la via Cavona, che fin dai tempi protostorici collegava l’interno alla costa.
Nel contesto di questa rete, l’area diventa soprattutto luogo di coltivazioni agricole (ad es. la fattoria in località Sassone) ma anche di fornitura di materiali per la costruzione di strade e di edilizia.

Si va avanti con la ferrovia. Nel periodo dell’arrivo delle ferrovie (Roma-Castelli Romani e Roma-Ceprano tra il 1856 e il 1892) viene riscoperta la vocazione agricola del territorio dopo circa un migliaio di anni di pastorizia e di abbandono dei territori che durava almeno dalla decadenza di Roma. Tale vocazione è strettamente legata alla domanda di derrate di Roma, nuova capitale del Regno d’Italia.
La Roma-Frascati viene inaugurata nel 1856, quella per Velletri nel 1863 e la Roma-Albano nel 1886. A ciò si aggiunga che, solo tredici anni dopo, Roma comincia a incrementare la sua popolazione a ritmi serrati (dal 1870 al 1911 la popolazione si triplica).
La prima stazione, nella zona di “Ciampino vecchia”, è il primo nucleo edificato, se si escludono i casali del ’600 realizzati sulla via dei laghi e delle Mura dei Francesi.
Constava di tre edifici (uffici e piccoli magazzini; ricoveri per il personale di servizio e per i viaggiatori) oltre al grande serbatoio dell’acqua. “Una Stazione da cui nessun viaggiatore scendeva e nessun viaggiatore saliva. Si sostava. Si attendeva che il passaggio dei treni in arrivo da Frascati o da Ceprano, sgombrando i binari unici delle due linee ferrate che proprio lì confluivano, consentisse di proseguire in sicurezza verso la meta prescelta.” (Luigi Zuzzi, gennaio 2007).
Nel 1892, per sopravvenute necessità tecniche legate al passaggio della nuova linea per Napoli, fu creata la nuova stazione.

Si arriva all’aeroscalo. E’ proprio qualche anno dopo che comincia a maturare l’idea di realizzare un aeroscalo da parte dell’Ispettorato per i servizi aeronautici, apparato tecnico dell’allora Ministero della Guerra, di cui era responsabile Maurizio Valentino Mario Moris.
Moris, appartenente a una ricca famiglia piemontese, cerca un’area per costruire e accogliere il prodotto di un suo agognato progetto: l’aeronave “G”, di grandi dimensioni (per altro mai realizzato). Dopo alterne vicende, per realizzare l’aeroscalo fu scelta un’area tra linea ferroviaria e la via Appia. L’area venne espropriata per motivazioni di pubblica utilità nel 1914. Prese quindi vita l’aeroscalo Pastine, con il suo grande hangar, che per 10 anni fu l’avanguardia del dirigibilismo mondiale.

E’ la volta della città giardino
Intorno al primo decennio del novecento entra in scena anche la questione del “supporto” residenziale. La Società anonima cooperativa, nata nel 1910, acquista nel 1916, proprio due anni dopo l’esproprio dell’area per l’aeroscalo, un ampio terreno di 11 ettari nella località Ciampino Nuovo, tra l’aeroscalo e il nodo ferroviario. Quindici giorni prima dell’acquisto, la Colli Parioli aveva depositato presso uno studio notarile un articolato in 13 punti con le regole per la costruzione del nuovo insediamento “Villaggio a tipo di Città giardino”. L’idea di questo insediamento che avrebbe dovuto offrire residenze di qualità al mondo del lavoro legato all’aeroscalo, non seguiva proprio perfettamente l’idea delle città giardino inglesi: era previsto che i lotti fossero venduti e in un primo momento non erano contemplate le aree destinate ad attività agricole, se non per piccoli orti adiacenti alla casa. Il “villaggio” non sarà mai completato e verrà sommerso da altri insediamenti che rispondevano a una domanda di alloggio diversa da quella per cui era stato concepito: una domanda proveniente da fasce sociali deboli (comunità di marchigiani, umbri e ciociari, cui si aggiunsero anche immigrati dalla Sicilia, Calabria e Campania) sollecitate dal mercato del lavoro aperto dalla politica agraria fascista e dall’aeroporto che, debordando dai confini originari, snaturò tutto il progetto.

Ciampino conserva nel suo territorio molto altro, di cui qui non si è parlato; archeologia, interessanti edifici religiosi e civili (anche in corso di riqualificazione): la Villa di Quinto Voconio Pollione (che era una grande azienda agricola nel periodo dell’impero romano) e il complesso dell’IGDO ─ vincolato dalla Sovrintendenza ─ non ne sono che una testimonianza.
Ciampino ha una ricchezza che non “traspare”. Forse un “sano” ridimensionamento dell’aeroporto (per altro localizzato per ¾ nel comune di Roma) in relazione alla creazione del nuovo aeroporto a Viterbo, potrà essere l’occasione per ripensare la strategia della città: una città che, oggi, svolge un importante ruolo di “supporto” residenziale per Roma (facilitato dalla presenza di più stazioni ferroviarie sul suo territorio: Ciampino, Sassone, Acqua Acetosa, Pantanelle e Casabianca); una città anche fortemente attrattiva rispetto ai Comuni contermini per la presenza di servizi (ad es. quelli scolastici); una città che posta a cerniera tra Roma e i Castelli Romani potrà in futuro, “riconoscendo” una propria identità collettiva, imprimere una nuova svolta di qualità alla riqualificazione del proprio territorio e alla vivibilità del proprio territorio.

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Si ringrazia Luigi Zuzzi per le informazioni fornite e per la consultazione degli studi da lui compiuti sull’area di Ciampino

scritto da Manuela Ricci |

Per la rubrica Centri Storici – Numero 81 maggio 2009
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ROCCA di PAPA Una città impegnata ad affrontare i cambiamenti sociali e di ruolo che la storia le consegna

Rocca di Papa

Una città impegnata ad affrontare i cambiamenti sociali e di ruolo che la storia le consegna

Veduta di Rocca di PapaUn comune di circa 15 mila abitanti arroccato su una collina a 680 metri sul livello del mare: a guardarlo dal basso si rimane senza fiato per la spettacolarità e la potenza dell’immagine “urbana” che si prospetta con una forte compattezza insediativa. Gli edifici si abbarbicano, come petali di una pigna, al cratere del Monte Cavo, culminando con l’area della Fortezza pontificia a 753 mt e il tufo della rupe a coronamento. Vengono alla mente, mutatis mutandis, i centri storici di Positano e Morano Calabro che sembra non si vogliano staccare dai monti.
L’origine del nome è controversa; nelle varie ipotesi che si avanzano c’è quasi sempre di mezzo un Papa, che sia Papa Eugenio III − che nel 1181 rivendicava la sovranità pontificia sul Castello − o Papa

− che diede rifugio ai Tuscolani mentre i romani distruggevano Tusculum − o ancora PioII, sotto il cui pontificato fu restaurata la Fortezza pontificia.
Il territorio rocchiggiano era già abitato nel primo millennio a. C.; sul Monte Cavo si ergeva il Tempio di Giove Laziale, centro di incontro e meta di pellegrinaggi. Alcuni storici affermano che la capitale latina Alba Longa sorgesse in questo territorio, sulle sponde orientali del lago Albano proprio ai piedi del Monte Cavo.
Dopo la caduta dell’Impero romano, Rocca di Papa entrò nella gestione della chiesa romana. Il primo “affidamento” della città da parte dei Papi fu ai conti di Tuscolo; poi si successero gli Annibaldi. Nel 1426 entrarono definitivamente i Colonna (sotto il pontificato di Martino V-Oddone Colonna), che rimasero fino al 1816, la cui dinastia ha notevolmente influenzato Rocca di Papa.
La storia di Rocca di Papa è una storia di distruzione e ricostruzione: nel 1541 la Rocca fu distrutta, con il benestare del Papa Paolo III, da Pier Luigi Farnese, traendo pretesto dal rifiuto dei Colonna di pagare la tassa sul sale, in forza di un privilegio concesso loro un secolo prima da Martino V Colonna; nel 1577 un violento incendio distrusse quasi completamente l’abitato; un terremoto nel 1816 danneggiò numerosi edifici. Nel 1855 una terribile epidemia di colera decimò la popolazione.
L’emanazione del nuovo Statuto da parte del Cardinal Ascanio Colonna, dopo l’incendio e la ricostruzione ad opera di Marcantonio Colonna, dopo la contesa con i Velletrani; la proclamazione della Repubblica di Rocca di Papa al grido di “Dio e Popolo”, sono tutti eventi che stanno a testimoniare la forza di un paese a rispondere alle avversità e a proporre la “ricostruzione”.
La storia di Rocca di Papa, che si attesta in gran parte sui rapporti con i Colonna, è una storia, come scrive Carlo Cofini, di una comunità rurale, di ” un interessante campione di vita quotidiana all’interno dello Stato Pontificio, alla vigilia di considerevoli mutamenti politici in Europa”.
Infatti, nel 1426 Martino V, per dimostrare il suo favore verso i nuovi sudditi dei Colonna, indirizzò loro una Bolla che riconosceva i diritti goduti “ab immemorabili” di legnare, carbonare e pascolare nei boschi del territorio comunale, riducendone i tributi . E’ proprio sul riconoscimento di questi diritti, che ha investito la Macchia grande, ricca di alberi da legname forte e dolce, che si sono articolate le infinite e aspre controversie tra la comunità e i Colonna.
La struttura della città è singolare.
Ciò che rimane del primo insediamento, che risale al Medioevo, costituisce l’anima dell’attuale centro storico. Il sistema insediativo si diparte dall’alto verso il basso − scandendo l’età del patrimonio dalle origini più antiche a quelle moderne − come attorcigliato in una sorta di giro elicoidale di scale e vicoli con notevole pendenza. Questo sistema si attesta su alcune piazze che, nell’evoluzione urbana, hanno svolto ruoli che, oggi, si sono profondamente modificati.
Si parte dal nucleo in alto, composto dagli edifici più antichi, che si aggrega intorno alla piazza del Crocifisso, con l’omonima piccola Chiesa, che si apre sul vasto panorama della campagna sottostante. La chiesa fu ricostruita, dopo il crollo, nel 1850, grazie a uno scultore tedesco T. W. Achtermann, che fece dono di alcune sue opere di fine e potente fattura, conservate in questa chiesa e nel Duomo dell’Assunta.
Un vecchio forno che prepara il pane e i dolcetti locali ancora in maniera tradizionale è l’unico presidio in fatto di servizi che rimane qui ancora vivo, in un nucleo che presenta qualche fenomeno di degrado edilizio (con primi segni di riqualificazione) e vicoli strettissimi che non consentono l’accesso delle auto. E’ una parte abitata soprattutto da migranti, in particolare rumeni (la presenza straniera a Rocca di Papa si è incrementata del 50% negli ultimi 4 anni).
Ma i cambiamenti che attraversano la nostra società stanno generando un particolare fenomeno di convivenza, come ci racconta il proprietario del forno, tra migranti e una specifica fascia di popolazione, quella dei separati ormai “single” – prevalentemente di origine romana – che, come i migranti, sono in grado di pagare soltanto bassi canoni di locazione.
Lo spazio pubblico di riferimento era piazza XX Settembre, con un interessante fontana in pietra tufacea, che da 600 anni è luogo di ritrovo dei paesani e oggi luogo d’incontro dei migranti.
Scendendo si arriva a piazza Garibaldi, con la fontana denominata “La Barcaccia”, che gli abitanti chiamano comunemente piazza dell’Erba, in quanto vi sorgeva il mercato ortofrutticolo; è la piazza che conserva il ruolo civico di Rocca di Papa.
E’ qui, come anche nello spazio antistante la chiesa del Crocifisso, che si aprono quelle finestre “sull’infinito” che caratterizzano quasi tutti i centri storici dei Castelli Romani e che fecero dire a Massimo D’Azeglio:
“Ho veduto in vita mia grandi e belle estensioni di paese, in piano, sui mari, sui laghi, ma una vista come l’avevo dal balcone della mia camera a Rocca di Papa, e che tanto campo offrisse alla immaginazione, alle grandi memorie, al gusto artistico ed alla poesia, non l’ho incontrata in nessun luogo e neppure che le si avvicinasse “.
In basso, all’esterno del centro storico, Piazza della Repubblica è oggi quella più frequentata dai cittadini, “il nuovo”, più facilmente accessibile, anche a seguito della realizzazione di un recente e ampio parcheggio, che ha avuto la meglio sullo “storico”, certamente più difficile da vivere, anche a causa della minuta struttura viaria e alla sua faticosa pendenza.
Eppure, questo problema era stato risolto negli anni passati con una funicolare entrata in funzione nel 1906, che collegava Valle Oscura a viale Silvio Spaventa, che funzionava con un sistema di contrappesi mossi dall’acqua, poi smantellata e sostituita da una funicolare elettrica. Inaugurata nel 1932, collegava la stazione di Valle Vergine con piazza Garibaldi; rimase in funzione fino al 1963.
Un nuovo piano regolatore, che propone una politica per il centro storico; i finanziamenti recentemente ottenuti a seguito del Bando PROVIS, emanato dalla Provincia di Roma, per valorizzare il centro storico e per rilanciare Rocca di Papa come luogo di turismo e di villeggiatura: ci raccontano una città che si sta muovendo e sta cercando di affrontare i cambiamenti, sociali e di ruolo, che la storia recente le ha consegnato, cambiamenti che la città stessa ha mostrato, nel corso della sua storia, di avere la capacità di affrontare.

Si ringrazia Carlo Cofini per aver messo a disposizione i suoi studi su Rocca di Papa, in particolare il volume “Rocca di Papa, Repubblica di un giorno”

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(1) Da uno a mezzo rubbio d’orzo per casa e due soldi per soma la gabella del carbone e della legna.

scritto da Manuela Ricci |

Per la rubrica Centri Storici – Numero 82 giugno 2009
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FRASCATI un cuore urbano semplice, compresso e leggibile nella sua struttura essenziale

Frascati

un cuore urbano semplice, compresso e leggibile nella sua struttura essenziale

Una fresca giornata di luglio, una luce avvolgente, quasi finta, e la città che si pone come un palcoscenico in cui gli attori si muovono senza sapere di essere osservati e dove quel che resta del centro storico, dopo i bombardamenti della seconda guerra mondiale, si erge a sfondo della scena facendo intravedere il valore di quanto è andato distrutto.
Una piccola parte di città, il cuore centrale, si apre e si manifesta al visitatore come un organismo flessibile, continuo, con il suo sistema di piazze (piazza San Rocco, piazza del Gesù, piazza San Pietro, piazza del Mercato), i suoi palazzi, chiese e fontane, in un ibrido di edifici storici, di spazi ricavati dalle demolizioni necessarie, di costruzioni risalenti al dopoguerra che tentano un dialogo organico con il preesistente. Forse sta proprio qui il fascino di questo cuore storico, compresso e ancora leggibile nella sua struttura essenziale.
Salendo dalla stazione, la città si presenta con la sua parte di origine medioevale – che conserva qualche traccia di mura – da cui si dipartono a pettine una serie di scale e salite che disegnano la città barocca e settecentesca che va ad esaurirsi nel parco dell’Ombrellino, contro le mura che si sono aperte, con le rare tracce delle tre porte, a formare dei belvedere sulla campagna.
Dopo il Medio Evo, verso la metà del 400, fu Papa Pio II a dare un vero impulso a Frascati, fino a pochi anni prima modesto feudo dei Colonna, erigendo una rocca, oggi luogo della residenza vescovile – possente costruzione con gli angoli muniti di due torri quadrate a scarpata e una terza rotonda fiancheggiata dalla piccola chiesa di S. Maria in Vivario (1305) – e cingendo di mura il castello.
Successivamente, una serie di Papi e importanti famiglie nobiliari hanno segnato la storia e il destino di Frascati, in un susseguirsi continuo di progetti e realizzazioni, di costruzioni di mura che si intrecciano, conservando le vestigia di storie sovrapposte.
Durante il feudo dei Farnese e il Papato di Paolo III, la città si espande al di fuori dei confini medioevali, viene favorito l’insediamento di nuove famiglie, si apre la stagione della “villeggiatura” romana (che si svilupperà appieno dopo la realizzazione della ferrovia Roma-Frascati nel 1856).
È il periodo della costruzione delle ville tuscolane che circondano la città (1550-1650) che ne condizionano l’assetto. Il baricentro si sposta a monte con un’ addizione seicentesca, con strade dritte e reticolo ortogonale. Tale spostamento viene sancito e ufficializzato dalla nuova Cattedrale, iniziata a partire dal 1598 e conclusasi nel 1610, dedicata a S. Pietro in sostituzione di quella di S. Maria in Vivario immersa tra casette, mura e ruderi romani del vecchio borgo (cfr. Vivavoce n.64/2007).
La facciata in locale pietra sperone con le sue statue bianche si disegna nella luce, facendo emergere le sculture messe in rilievo dalle ombre. Si impone sulla piazza con la sua presenza possente, ma allo stesso tempo familiare, è come se fosse stata sempre lì, a fare da sfondo allo spazio pubblico e ad aprire le sue porte ai cittadini. È proprio la sua potenza e la sua capacità di convogliare lo sguardo che fa perdere il senso degli edifici che contornano la piazza, costruzioni di scarsa qualità che dovevano rispondere velocemente alla domanda di ricostruzione post-bellica Ma è una piazza complessa e articolata, in cui è ancora una chiesa – la chiesa barocca del Gesù, eretta in questi anni – a far sentire la sua presenza e in cui i resti della bellissima fontana di Piazza S.Pietro si incastonano in un edificio dal corpo allungato (che ha preso il posto di quello distrutto dal bombardamento), coronato da un loggiato all’ultimo piano. L’edificio, progettato dall’arch. Luccichenti, mostra il forte divario tra moderno e storico, un divario che sembra pervadere tutto il centro e che connota fortemente la scena.
Ed è, infatti, proprio qui – sull’area risultante dalla distruzione bellica della sede del seminario vescovile e compresa tra la piazza del Gesù e l’adiacente testata della piazza S. Pietro da un lato e via Paola dall’altro – che, dopo il bombardamento, la ricostruzione segna il centro della città: l’arch. Luccichenti, su incarico della Società Generale Immobiliare, progetta , tra il 1947 e il 1949, il complesso comprendente la galleria Vittorio Emanuele II e il Supercinema, : la struttura comprende venticinque locali per attività commerciali, nove ambienti per uffici, ventisei appartamenti e una sala cinematografica (cfr. Vivavoce, n.80/2009).
Nonostante le sovrapposizioni e giustapposizioni di interventi, il centro storico di Frascati è un cuore urbano semplice, dove sono ancora leggibili le tracce dei luoghi del potere che configuravano la vecchia città: potere civile (comune e carcere), ecclesiastico (edifici religiosi) ed economico (mercato); nonostante gli spostamenti di alcune sedi (Comune) avvenute nel corso degli anni finalizzate a migliorare la funzionalità delle attività. In particolare la piazza del Mercato, recentemente ripavimentata, con il suo bar e il prospetto del mercato che si apre sull’emiciclo, denuncia la vitalità e la piacevolezza del sostare.
Dalla Stazione, presidiata da un interessante edificio che gestisce il dislivello tra la piazza e la sede della ferrovia attraverso un sistema di scale, l’arrivo a piazza Marconi è immediato, e immediate sono le visioni di Villa Aldobrandini – che lancia la dimensione in altezza della città con i suoi visibili terrazzamenti – e di Villa Torlonia, ancorata con il suo verde ai “piedi” della città. La prima, progettata da G. Della Porta per il Cardinale Aldobrandini e terminata da C. Maderno e G. Fontana (1604), si erge con la sua facciata all’interno di un parco, di cui si avverte la notevole dimensione. Ma è la facciata posteriore quella più interessante e che apre alla meraviglia delle fontane e dei giochi d’acqua presenti nel giardino.
Villa Torlonia, già proprietà dei Torlonia, divenuta parco pubblico dal 1945 – con la sistemazione dovuta all’arch. Luccichenti – è il centro verde della città con lo splendido teatro delle acque che accompagnava l’edificio della villa distrutta dal bombardamento.
Frascati testimonia anche la presenza di un’ interessante attività di ricostruzione post-bellica esterna al centro storico nell’esperienza del quartiere INA casa che vede realizzati i progetti di figure di spicco dell’architettura romana di quegli anni (cfr. Vivavoce n.66/2007). Alcuni villini uni e bi-familiari di Luciano Giovannini, risalenti agli anni sessanta (cfr. vivavoce n.68/2008), arricchiscono l’esperienza della modernità di Frascati.
Una città, dunque, permeata di storia, che delle sue vestigia fa mostra a cittadini e visitatori; una città verde, una città in continua crescita demografica che svolge un importante ruolo egemone nel territorio dei Castelli Romani e nel raccordo con Roma.

scritto da Manuela Ricci |

Per la rubrica Centri Storici – Numero 85 ottobre 2009
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GROTTAFERRATA villaggio urbano dai molteplici cuori

Grottaferrata, villaggio urbano dai molteplici cuori

Sembra proprio che la storia voglia nascondersi in questa città: dalle sue origini romane (la villa su cui è stata eretta l’Abbazia di San Nilo apparterebbe a Cicerone) e dagli altri resti sparsi nelle campagne criptensi fino ad arrivare alle architetture moderne di palazzi e villini negli stili più diversi, con interessanti esempi liberty e razionale, inglobati nei molteplici cuori di questo “villaggio urbano”.
La forza di Grottaferrata sta nella sua capacità di “custodire”: nonostante la densificazione del territorio, avvenuta negli ultimi 30 anni, accompagnata da demolizioni e sostituzioni edilizie, i caratteri tipici di questi edifici non sono stati del tutto cancellati (C. Baldoni, R. M. Strollo, I villini del ’900 in Grottaferrata).
La città appare strutturata attraverso nuclei diffusi sul territorio, a mo’ di città giardino, che si dipartono da una micro-matrice storica, perno del successivo sviluppo urbano. La matrice è formata in primo luogo dall’Abbazia di Santa Maria di Grottaferrata, fondata nel 1004 da San Nilo da Rossano la cui chiesa fu terminata circa 20 anni dopo. Elevata a monastero esarchico – abbatia nullius dioecesis cioè abbazia territoriale nel 1937, è retta dalla Congregazione dei monaci basiliani d’Italia. Il secondo elemento originario è la spina edilizia di corso del Popolo, il cui decoro urbano e impianto fognario furono disegnati dall’architetto Agostino Mercandetti nel 1872.
La storia di Grottaferrata, che ruota tutta intorno all’Abbazia, è densa di avvenimenti incalzanti.
Per fronteggiare la situazione di grande fragilità manifestata dall’Abbazia stessa in relazione ai frequenti saccheggi e occupazioni da parte di diversi eserciti (imperiali, napoletani, francesi, per non parlare dei più vicini marinesi), l’abate commendatario Giuliano Della Rovere fa erigere, fra il 1482 e il 1491, il castello e le potenti mura che ancora oggi la circondano: quelle “gialle mura” che Carlo Emilio Gadda ipotizza “affidate” dal Della Rovere al Sangallo, anche se dati stilistici e circostanze storiche fanno pensare a Baccio Pontelli.
Dopo successive alternanze di commendatari, nel 1824 alla morte di Ercole Consalvi, ultimo della serie cardinale commendatario, la commenda venne soppressa. I beni abbaziali furono concessi in enfiteusi perpetua al monastero e la giurisdizione temporale attribuita al governatore di Frascati di cui Grottaferrata divenne appodiato.
Grottaferrata si identifica come primo nucleo urbano composto originariamente dall’antica città di Tuscolo, dall’Abbazia e dalla zona industriale che faceva perno attorno alla cartiera pontificia, sorta nel 1629 sotto l’Abbazia in collegamento con il “Vallone” e con il rivo dell’Acqua Mariana (vedi “Viva voce” n 84. La cartiera pontificia di Grottaferrata).
Nel 1848, con 671 abitanti, diventa Comune dietro accettazione da parte di papa Pio IX dell’istanza presentata dal cardinale Ludovico Altieri (Presidente di Roma e Comarca) e grazie al lavoro di Giovanni Passamonti, che sarà il primo sindaco: l’erezione di Grottaferrata a Comune viene celebrata nella sala principale di Palazzo Santovetti, situato all’inizio di corso del Popolo, una residenza privata in mancanza di locali municipali.
Con la fine dello Stato pontificio, dopo il 1870, Grottaferrata diventa comune del Regno d’Italia.
Nel 1875 la popolazione del territorio criptense arriva già a 1300 persone. Si attivano i primi servizi: un Museo e un Ufficio Postale.
Gli uffici comunali hanno sede all’interno delle mura abbaziali fino al 1886, anno in cui l’abate Arsenio Pellegrini acquista il palazzo costruito dal capitano Pietro Grutter e lo cede al Comune.
Tra il 1904 e il 1907 vengono realizzati i lavori per la Via di Squarciarelli, mentre già era stato avviato il collegamento con Marino dalla parte di Colle Cimino.
Il 20 febbraio 1908 è la volta dell’ inaugurazione della Tramvia dei Castelli Romani, che da Roma arrivava al bivio di Grottaferrata, dove si divideva in due linee dirette rispettivamente a Frascati e a Genzano.
Grazie anche ai servizi telefonici ed elettrici, attivi fin dal 1900 e 1901, il ruolo di Grottaferrata come luogo di villeggiatura dei romani si consolida ed è seguito dalla costruzione di ville e villini liberty e nei più svariati stili da parte della medio-borghesia romana, alcuni di notevole valore architettonico. Gli abitanti arrivano a 5.000 e fino a 12.000 nei mesi estivi.
Già parecchie famiglie romane, desiderose d’aria e di spazio, si sono recate ad abitare in quegli ameni siti; nella stagione estiva parecchi vi si portano a passare mesi sereni lontani dalle leziosaggini cittadine. E nella visione dell’industria del villeggiante piglia piede la speculazione edilizia, la quale viene mettendo su villette civettuole e appartamenti signorili (Buonocore, 1921).
Nel 1921 sorge la fabbrica di ceramiche artistiche dei fratelli Tidei sita a Squarciarelli.
L’exploit di Grottaferrata dura fino al 1940. Il secondo conflitto mondiale seminerà distruzioni nei Castelli Romani.
Oggi, Grottaferrata, a differenza degli altri centri storici dei Castelli Romani, mostra una particolare forma insediativa che vive di piccole isole “urbane”, di case sparse, piccole palazzine, villini e ville: all’edilizia privata si alternano interventi di edilizia residenziale pubblica, facilmente riconoscibili, risalenti a diversi periodi da quella dei primi anni del Novecento a quella degli anni Cinquanta fino a quella più recente.
Una città che non c’è; un sistema insediativo che vive del suo rapporto con Roma, con cui confina (all’altezza delle Catacombe “Ad decimum”) – alla quale ha un facile accesso attraverso la metro Anagnina e l’omonima strada statale – e dove la maggior parte degli abitanti lavora e, sostanzialmente, trascorre la giornata.
Il fine settimana si può stare a casa, ma il centro storico non rappresenta il classico luogo dello struscio, la passeggiata dedicata agli incontri e agli acquisti; è popolato il sabato, in particolare la mattina, ma nulla di più.
Lo stringersi del rapporto con Roma, i cambiamenti derivanti dalla sostanziale residenzializzazione, l’abbandono parziale delle campagne hanno trasformato anche il Corso del Popolo. Le botteghe artigiane sono scomparse, così come le cantine. Ma qualche volta ancora si percepisce l’odore del mosto che si infiltra nelle strade; è il segno che qualche attività continua a resistere.
Grottaferrata è anche un luogo dove l’architettura moderna ha lasciato interessanti tracce identificabili in ville e palazzi cui sopra si è accennato. Per chi non conosce la città, e soprattutto la sua storia, bisogna “scovarle” dentro l’abbraccio urbano che le tiene rinserrate.
Villa Eloisa, il Castagno, ma anche la sottostazione elettrica di Villa Dusmet non sono che un esempio di questa ricchezza. I villini si presentano come una sorta di catalogo, il più vario: le ville spesseggiano ovunque, diverse di mole, di stile, di aspetto e di tinte (Ponti, Passamonti, Storia e storie di Grottaferrata, 1939), proprio in relazione alla variegata immagine dei villeggianti, appartenenti ai ceti dell’imprenditoria, della dirigenza, degli intellettuali e dei commercianti della Capitale, nonché ai diversi architetti cui sono state commissionate (C. Baldoni, R. M. Strollo, op. cit.).
Ma Grottaferrata è stato anche un luogo di attività industriali che si sono sviluppate per quasi tre secoli nel Vallone sotto l’Abbazia. La citata cartiera, che fu chiusa nel 1893, e la ferriera (chiusa nel 1856), della cui esistenza si ritrovano già le tracce in un libro del Filerete, scritto tra il 1460 e il 1464, che probabilmente la visitò nel suo viaggio in Italia (vedi Viva voce n.71).
Ed è ancora attorno all’Abbazia che prende piede a partire dall’inizio del secolo XIII l’attività fieristica, in connessione con il suo ruolo attrattivo. Infatti, nel medioevo, un gran numero di pellegrini affluiva nell’area soprattutto per la concessione delle indulgenze di Innocenzo III e ancor di più di Gregorio IX.
Oggi la fiera di Grottaferrata, ha certamente cambiato volto; non è più soltanto una vetrina dei macchinari e prodotti agricoli perché recentemente interessa anche il commercio, l’artigianato e la piccola industria.
E’ così che questa città mostra tutti i caratteri del suo sgranato, discontinuo e “misterioso” territorio: luogo di residenza, di storia, di produzione, di fiere; luogo di concentrazione delle attività e dei beni culturali da un lato e di dispersione abitativa dall’altro.

scritto da Manuela Ricci |

Per la rubrica Centri Storici – Numero 86 novembre 2009
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NEMI dentro e fuori

Nemi dentro e fuori

per il recupero e la tutela degli insediamenti storici e del paesaggio

“C’è più bellezza di quanta i nostri occhi possano sopportare, cose preziose sono state messe nelle nostre mani e non fare nulla per onorarle equivale ad arrecare un grave danno”.
( Marilynne Robinson, Gilead, 2008 )

La storia di un territorio può essere raccontata a partire dagli oggetti, dalle cose, risalendo pian piano alla rete dentro la quale si trovano invischiate altre storie: una di queste è quella che riguarda gli uomini, negli aspetti del lavoro, del vivere quotidiano, di quanto hanno saputo fare e costruire per rendere migliore la loro esistenza.
Anche l’architettura popolare dei nostri centri antichi è fatta di storie che nascono dagli oggetti che compongono gli edifici: muri, scale, tetti, cornici, portali, porte, edicole, finestre, grate, serrature, chiavistelli. Oggetti che, ritagliati da un contesto culturale più ampio, riportano ad altri aspetti e settori della vita della città come la religiosità, la musica, la danza popolare, la poesia, l’arte e tutti quegli apporti culturali che definiscono i caratteri di una comunità oltre il lavoro. Dalle storie e dagli oggetti è possibile risalire alla comprensione dei legami che tengono insieme le varie parti della città, parti che sono reciprocamente interconnesse.
La raccolta e la sistemazione ordinata dei dati, propri di una città, fornisce tracce consistenti per identificare, riconoscere e valorizzare l’esistente, in un rapporto di continuità con il passato; inoltre offre alle amministrazioni pubbliche, ai tecnici, agli interessati tutte quelle informazioni utilizzabili come piattaforma conoscitiva per i programmi ed i progetti di recupero.
Tale metodologia di indagine è stata utilizzata nel centro storico di Nemi, dove sono stati analizzati tutti quegli elementi che individuano una relazione, un legame tra gli spazi. I portali e le porte, (vedi figura 1) ad esempio, sono gli oggetti di comunicazione, di passaggio, di interconnessione, di trasporto spazio-temporale tra il dentro ed il fuori che per la loro forma e caratteristica da un lato proteggono, nascondono le realtà retrostanti, dall’altro ne rendono evidenti le tipologie, le funzioni, anticipano l’evoluzione e la consistenza degli spazi celati. Il loro ruolo e il loro messaggio sono rafforzati dalla presenza o meno di elementi architettonici o decorativi come le cornici, i piedritti, gli architravi, gli stucchi che svelano i “segreti” degli spazi sotto i diversi aspetti legati alla loro funzione, alla loro forma, alla loro qualità estetica ed urbana ed alla connotazione socio-culturale delle persone e delle attività che lì si svolgono o si sono svolte.
Le porte delle cantine e delle grotte di via Solferino e via delle Grotticelle celano misteri: davanti, nella poca luce dell’ingresso, i segni e gli oggetti delle attività legate alla cultura contadina e popolare, dietro, nella totale oscurità, il vuoto continua, si insinua nella terra fino chissà dove. E nascono allora le fantasie insieme ai fatti reali, i vecchi raccontano di lunghi cunicoli ipogei a Nemi che collegano posti lontani, di persone nascoste, di armi, di storie di briganti e di tesori abbandonati, di acqua di sorgente che filtra dalle pareti, di animali che abitano il buio, di gente che un tempo scavava per recuperare spazio, acqua, materiale da costruzione dentro la grotta. Fuori invece solo una porta: “quella porta”.

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