Le Ville Tuscolane: status symbol di un’utenza di alto lignaggio

Le Ville Tuscolane: status symbol di un’utenza di alto lignaggio

Decorazione della Galleria Nuova di Villa GrazioliIl complesso delle dodici Ville Tuscolane, sorto nel giro di un secolo circa tra 1550 e 1650, costituisce la diretta conseguenza di due vicende storiche che coinvolsero l’Italia nella prima metà del XVI secolo: l’avvento della Pax Hispanica nella penisola e la Controriforma Cattolica scaturita dal Concilio di Trento.
La dominazione spagnola, affermatasi definitivamente con il Trattato di Catheau-Cambresis (1559), avrebbe portato l’Italia al picco negativo della sua storia col degrado economico, civile e morale, oltre che politico, da essa scaturito; tuttavia poneva fine alle guicciardiane “horrende guerre d’Italia” combattute tra Francia e Spagna per egemonia sulla infelice terra italiana.
La pace infuse fiducia nelle classi egemoni italiane, spingendole ad investimenti fondiari di grande prestigio; fenomeno che suole essere definito, pur con qualche contestazione, “rifeudalizzazione”. Il clima di sicurezza indusse anche le famiglie cardinalizie romane ad edificare sontuose dimore ad esaltazione del proprio blasone nonché a simbolo del rinnovato orgoglio di una Chiesa Cattolica che, assorbita la durissima mazzata della rivolta luterana, riacquistava la consapevolezza della propria missione universalistica e la celebrava nelle sontuose forme del nuovo stile barocco.
Il territorio tuscolano si prestava come nessun altro a questa bisogna, non solo per la vicinanza a Roma, ma per la celebrata amenità e salubrità dei luoghi nonché per la pregnanza di memorie e testimonianze classiche. A ciò si aggiungeva la recente apertura di una nuova strada da S. Giovanni a Frascati.
Il fatto poi che dal 1537 Frascati non apparteneva più ad una singola famiglia feudale, ma alla Camera Apostolica, fu determinante nell’indurre la nobiltà romana ad acquistare terreni nel Tuscolano, per erigervi le proprie dimore. Sorsero così, come si è detto in precedenza, dodici superbe dimore gentilizie, le “Ville Tuscolane”, scaturite da un disegno unitario di chiara origine ideologica: la concreta, visibile enfatizzazione del carisma di classe, della nobiltà prelatizia protagonista della Riforma Cattolica prima, e della successiva Controriforma.
Le Ville vanno perciò viste come un unico blocco omogeneo, alla cui base non vi furono soltanto motivazioni di carattere ricreativo o igienico, pur valide queste ultime quando le famiglie principesche con i loro seguiti si trasferivano sui freschi e ombrosi colli del Tuscolo per sfuggire ai fetidi miasmi della torrida estate romana. A tal proposito è lecito affermare che, visto che anche i Papi si spostavano nelle ville tuscolane con l’intera corte, queste diventavano la sede del Governo Pontificio estivo e Frascati poteva fregiarsi del titolo di “piccola Roma”, com’ebbe a definirla S. Giuseppe Colasanzio: una sorte, insomma, di Vice-Roma.
Torniamo però al significato più profondo delle ville, quello politico e ideologico. I casati da cui provenivano Papi e cardinali ufficializzavano il loro potere attraverso le ville che divennero perciò veri status symbol di questa utenza d’alto lignaggio. I vasti programmi dell’aristocrazia romana, come strade, palazzi, interventi urbanistici, rispondevano allo scopo di dare, diremmo oggi, “visibilità” all’onnipotenza della classe egemone, di cui rappresentarono vistosi “ideologemi” di forte impatto psicologico ed emotivo. A Frascati, come abbiamo accennato, non era una sola famiglia feudale quella che veniva glorificata, come a Marino, Castel Gandolfo, Ariccia o in altri siti del Lazio, ma tutta l’aristocrazia controriformista nel suo insieme ed a trarne vantaggio era la Chiesa stessa che, non più confusa e smarrita come agli esordi dello scisma protestante, riprendeva saldamente in mano le redini della Cristianità rimastale fedele e si ergeva a fronteggiare l’eresia in tutti i campi e con tutti i mezzi.
Non è un caso che una delle iniziative della Chiesa cattolica più densa di significati ideologici, abbia avuto sede proprio in una villa tuscolana, esattamente a Mondragone: la riforma del calendario. Nel 1582 il Papa Gregorio XIII riformò l’ormai inadatto calendario giuliano, introducendo quello detto appunto gregoriano, che oggi tutto il mondo usa, ma non senza accanite resistenze. Se infatti gli Stati cattolici lo accettarono subito, non fu così per quelli protestanti o ortodossi. Per Stati di altre religioni occorsero addirittura delle rivoluzioni perché fosse accettato: a riprova del significato politico di questo pur necessario provvedimento, grazie al quale la Chiesa cattolica assumeva il controllo del tempo, come già aveva assunto quello dello spazio, con l’azione missionaria, e dell’arte col mecenatismo dell’età barocca che fece di Roma la città più grandiosa e sontuosa d’Europa.
A tal proposito non è esagerato affermare che, se è vero che il barocco nacque a Roma, non meno nelle ville tuscolane va individuata la sua origine: un vanto non certo di poco conto!
Tutti i geni di questa splendida stagione artistica lasciarono la loro impronta nelle ville tuscolane. Dall’architettura ai cicli pittorici, dalle scenografie agli splendidi”teatri d’acque” ove architettura, scultura, giochi d’acque, perfino musica e natura, si fondevano in irripetibili, superbe sintesi.
La creazione della chiostra di ville tuscolane condizionò l’assetto della città di Frascati. Il baricentro si spostò infatti a monte ove venne tracciata con perfetto impianto “ippodameo” una addizione secentesca, con strade dritte e reticolo ortogonale. Tale spostamento fu sancito ed ufficializzato dalla costruzione di una nuova Cattedrale, a cominciare dal 1598, dedicata a S. Pietro in sostituzione di quella di S. Maria in Vivario immersa tra casette, mura e ruderi romani del vecchio borgo.
L’addizione secentesca fu abitata da un ceto di artigiani, commercianti e piccoli proprietari la cui formazione fu determinata ed incentivata proprio dalla presenza delle ville. A tal proposito si può dire che l’intera Frascati finì con configurarsi come area di servizio delle ville stesse, dalle quali l’abitato era separato da una cortina di muri di cinta entro la quale si aprivano per i frascatani solo un paio di varchi per l’accesso alle alture del Tuscolo. Splendidi portali, prospettanti su piazze che fungevano da cerniera tra il paese e le ville, immettevano in queste e Frascati risultò in posizione nettamente subalterna ad esse come del resto è evidenziato dalle stampe del seicento in cui l’abitato frascatano è riportato in scala inferiore rispetto al giganteggiare delle ville che gli fanno corona tutt’intorno.
La stagione delle ville tuscolane, iniziata nel 1546 con la decana, la Villa Rufina oggi Falconieri, si concluse agli inizi del Settecento. E si trattò di una conclusione spesso triste, fatta di abbandono e degrado protrattasi non di rado assai a lungo. Esauritasi la spinta storica ed ideologica che l’aveva generata, la “dodecapoli”, per così dire, delle ville tuscolane aveva evidentemente perduto la sua iniziale ragion d’essere.
Oggi, sia pure con differenti vocazioni e motivazioni, le ville tuscolane, anche se menomate dalla guerra, hanno ritrovato vitalità e splendore in vista di un ulteriore, nuovo capitolo della loro plurisecolare storia.

scritto da Raimondo Del Nero |

Per la rubrica Beni culturali – Numero 64 luglio 2007
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Via dei Laghi: la regina del paesaggio dei Colli Albani

Via dei Laghi: la regina del paesaggio dei Colli Albani

La costruzione della Via dei Laghi si deve al Principe Piero Colonna, Presidente della Provincia di Roma negli anni ’30. Questo signore, che era solito inoltrarsi nel fitto dei boschi dei Colli Albani per ammirarne la bellezza ed assaporare il profumo della natura nel silenzio del paesaggio, durante le sue peregrinazioni concepì l’idea della nuova via lungo il tracciato della vecchia “Corriera di Napoli” che, con qualche variante si inoltrava, nei tempi passati, tra le falde del Monte Cavo, nel complesso delle Faete e dell’Artemisio (Figg. 1-2).
Il vecchio tracciato, addirittura più antico dell’Appia e della via Latina, procedeva nel buio dei boschi, lungo sentieri intricati, fin dentro la “Macchia della Fajola” nota per la presenza e le azioni criminali dei briganti.
“Gli assalti alle diligenze, le grassazioni, i rapimenti dei viandanti erano all’ordine del giorno. Si racconta che già il Tasso, percorrendo a piedi questa strada per recarsi da Frascati a Sorrento, sorpreso nella notte, cercasse ricovero in una capanna di pastori, e che, temendo di essere assalito, prima di riprendere il cammino, indossasse i rozzi panni degli ospiti: il travestimento lo rese irriconoscibile persino alla sorella, la quale dicesi gli chiudesse la porta in faccia” (Le vie d’Italia, 1936, pagg. 406-407).
Successivamente questa antica via “Corriera di Napoli” fu quasi del tutto abbandonata e nel tempo invasa dalla vegetazione.
La nuova strada progettata dall’ufficio Tecnico della Provincia di Roma nel 1933 vide l’inizio lavori già nel 1934 ed in poco meno di due anni fu completata collegando Marino a Velletri a nord dei due Laghi vulcanici di Albano e Nemi, (17 chilometri aperti al traffico a metà del 1936), un itinerario turistico in prima battuta ed un collegamento alternativo all’Appia a volte interrotta per frane e che andava congestionandosi nell’infilata più a sud dei comuni di Castel Gandolfo, Albano, Ariccia, Genzano, Velletri i quali iniziavano la loro crescita urbanistica.

Un articolo, apparso a giugno di quell’anno nella rivista “Le vie d’Italia”, mensile del Touring Club Italiano, (sottotitolo che nel 1937 per il ridicolo divieto da parte del governo Fascista di utilizzare termini stranieri divenne Consociazione Turistica Italiana), a firma di A. M. Gobbi Belcredi con foto di U. Korte, è la fonte della gran parte delle notizie qui riportate.
Nello spirito e nel taglio della rivista pronta a coniugare le esigenze del progresso con gli aspetti naturali e della storia locale più volte vengono fatte risaltare quelle immagini di “una grandiosità e di una bellezza incomparabili” che ancora oggi sono percepibili percorrendo la Via del Laghi.
Nel suo svolgersi, la Via dei Laghi, lasciata la città di Marino, apre lo scenario imponente del lago Albano visto da nord-est e di Castel Gandolfo disteso sulla cresta del cratere. Sulla destra si può vedere lo stesso mare che descrive Stendhal quando nel 1827, il 21 di agosto, trovandosi nei pressi del lago Albano dice: “Appena arrivati in cima alla collina abbiamo trovato un delizioso venticello che veniva dal mare. Lo vedevamo, il mare, sulla nostra destra, non troppo lontano da noi, di un azzurro cupo sul quale si distinguevano nettamente le vele bianche delle paranze”. E nel diario del 22 agosto aggiunge: ” Dalla mia finestra potrei gettare un sasso nel lago di Castelgandolfo, mentre dall’altra parte, oltre gli alberi, godo la vista del mare. La foresta che va fino a Frascati ci offre meravigliose passeggiate, sempre deliziosamente fresche. Ogni cento passi abbiamo la sorpresa di trovarci in mezzo a paesaggi che ricordano quelli di Guaspre” (1). Di tale bellezza sono sempre stati questi luoghi da apparire come i “paesaggi perfetti” ispiratori delle opere di Dughet, Pussin, Lorrain e tantissimi altri. La via dei Laghi apre più avanti la visuale verso oriente, sui Colli Tuscolani e Monte Cavo. “…Sta il misantropo Monte Cavo e porta per cappello un convento …con un paio d’occhiali, il lago di Nemi e Albano, insellati su quel gran naso con la punta all’insù” (Pirandello). Sulla destra si raggiunge Palazzolo, luogo incantato tra le costruzioni del convento già Casa dei Consoli (“Palatium”, da cui il nome Palazzolo) dove al tempo della Lega Latina alloggiavano le autorità nel periodo della celebrazione delle “Ferie”. Anche da qui il panorama è felicissimo e straordinario. ” Delectabile est!” disse Pio II nel 1493 al cospetto delle bellezze di Palazzola, del monastero, della chiesa, della Villa del Cardinale, del sepolcro, dei boschi, del paesaggio del lago Albano (Figg. 3-4).
La strada con calma risale, si tuffa ora tra il bosco di faggi, di castagni e di lecci attraversa “Le quattro strade” con a destra il bosco di Ariccia. “Il bosco di Ariccia è il più bello del mondo: enormi rocce nude e oscure spuntano in mezzo al verde più rigoglioso e al pittoresco intreccio del fogliame. Si vede bene, dallo sbalorditivo splendore della vegetazione, che la montagna di Albano è un antico vulcano” (Stendhal). Andando avanti si incontra il “Guardianone” e poi a sinistra i resti di una vecchia stazione di Mezza Posta dove si dice che “Gasparone tenesse ospite forzata, per due giorni, la Regina di Spagna”.
Nel folto della Fajola la strada passa vicino alla fonte di Tempesta e alla sorgente di Pontecchio, attraversa la via Sacra e, superato il Casale dei Corsi guarnigione dei soldati del Papa, scende infine a Velletri costeggiando prima i pratoni del Vivaro, la Macchia della Cavalleria e l’Artemisio.
Fa parte della Via dei Laghi la deviazione di 1,33 chilometri che arriva a Nemi. Il tronco Nemi-Pratone presentò all’epoca della costruzione diverse difficoltà tecniche superate grazie alle brillanti soluzioni pensate dall’ingegnere Giuseppe Angelini progettista della Via dei Laghi.
La diramazione per Nemi, anche se breve, supera la ripida conformazione geomorfologica del sito ricorrendo ad un’ardita galleria elicoidale a cui si accede da un necessario ma poco elegante viadotto che permette di superare il forte dislivello con una pendenza accettabile. Qui si deve ridurre notevolmente la velocità e superare, all’ingresso, l’impatto con il buio della galleria percorribile sotto sterzo per assecondare lo stretto raggio di curvatura. La luce dopo 110 metri arriva improvvisa ed apre la vista, dopo aver sottopassato il viadotto con 4 campate da 10 metri, alle prime case di Nemi; sullo sfondo il lago (Figg. 5-8).
La strada entra nella piazza Roma e si collega alla via Nemorense che raggiunge Genzano. Tornando al bivio per i Pratoni del Vivaro la Via dei Laghi prosegue verso Velletri dove all’incrocio con L’Appia detto il “Triangolo” termina la sua corsa (Fig.9). Anche quest’ultima parte apre visuali e panorami suggestivi verso la piana e verso il mare mostrando il promontorio del Circeo e nelle giornate limpide le isole Pontine. In alcuni momenti della giornata il sole colora il mare con una lamina dorata ed al tramonto una distesa di colori impressiona l’osservatore partecipe della grandiosità dello spettacolo che la natura offre, sempre diverso nel cambio della luce e nelle ardite composizioni cromatiche: una meraviglia! (Fig. 10)

La Via dei Laghi nacque come strada Provinciale larga in media 6 metri con pendenze massime del 7 per cento e raggi minimi di curva di 30 metri, divenne successivamente Strada Statale con il numero 217 e dal 2001 a seguito del decreto legislativo 112/1998 tornò ad essere di nuovo Provinciale (SP 217). Non può essere una strada di sola comunicazione che si riempie di traffico. Una diversa politica riguardo la mobilità nei Castelli Romani è necessaria selezionando le percorrenze e potenziando il trasporto pubblico al fine di ridurre la quantità di mezzi ed auto che giornalmente percorrono le intasate arterie dei Colli Albani e che provocano disagi, ritardi e troppi incidenti.
La Via dei Laghi da sottoporre a “restauro paesaggistico” va percorsa a bassissima velocità (se ospitasse una tramvia e una ciclabile?) perché in ogni istante, dietro ogni curva nasconde una sorpresa, complice la natura e la storia dei luoghi attraversati, predispone l’animo alla pace e l’ombra del bosco guarisce dallo stress il viaggiatore.

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Nota (1) Dughet Gaspard (Roma 1615-1675) detto ” il Guaspro” era chiamato anche G. Poussin dal nome del cognato e maestro Nicolas Poussin (Les Andelys 1594 – Roma 1665), pittore e paesaggista di origine francese, raffigurò ampie vedute della campagna romana.

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Bibliografia
A.M. Gobbi Belcredi,1936, Da Marino a Velletri la via dei Laghi, in “Le vie d’Italia”, rivista mensile del Touring Club Italiano, giugno n. 6, pp. 405-413.
Stendhal, ristampa 1956, Passeggiate Romane, prefazione di A. Moravia, Parenti Editore, Firenze.
AAVV, 1982, I Colli Albani, Azienda Autonoma Soggiorno e Turismo dei Laghi e Castelli Romani, Albano Laziale

scritto da Carlo Testana |

Per la rubrica Beni culturali – Numero 94 settembre 2010

Franco Medici |

Per la rubrica Beni culturali – Numero 94 settembre 2010
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Fontanili, lavoro, architettura rurale nel bacino del lago di Nemi

L’acqua dei contadini

Fontanili, lavoro, architettura rurale nel bacino del lago di Nemi

“C’è più bellezza di quanta i nostri occhi possano sopportare, cose preziose sono state messe nelle nostre mani e non fare nulla per onorarle equivale ad arrecare un grave danno”.
( Marilynne Robinson, Gilead, 2008)

La storia di un territorio può essere raccontata a partire dagli oggetti, dalle cose, risalendo pian piano alla rete dentro la quale si trovano invischiate altre storie: una di queste è quella che riguarda gli uomini, negli aspetti del lavoro, del vivere quotidiano, di quanto hanno saputo fare e costruire per rendere migliore la loro esistenza. (Vivavoce n.87 p.4/6)


Si può avere una prima idea di come la fertile valle ed il bacino del lago di Nemi fossero utilizzati nel secolo scorso a fini agricoli percorrendo il sentiero del Tempio di Diana, appena fuori dal paese. A sinistra della porta medievale in blocchi di peperino e basalto chiamata la “Portella” inizia un antico sentiero recuperato dal comune negli anni novanta e recentemente ripulito dagli operai del Parco Regionale dei Castelli Romani.
Scendendo a valle su una pavimentazione di scapoli di pietra locale delimitati da stangoni in peperino che conforma una comoda rampa, si incontrano tra la vegetazione i segni della vita rurale e contadina dei secoli passati. La conca del lago che appare a sinistra volgendo lo sguardo al mare, nelle mattinate di primavera è illuminata da un sole tiepido e dorato: il paesaggio risplende (fig.1-2).

Qui come in altri luoghi i segni ancora visibili sul territorio sono espressione della concreta necessità da parte di una comunità di attingere al proprio patrimonio di risorse, di utilizzare le capacità di una tecnologia spesso povera ma utilissima e molto ingegnosa per garantire l’adattamento delle proprie esigenze di vita con quelle del territorio e dell’ambiente con il quale si condivide il destino.
Poco prima dello slargo con il fontanile si nota la presenza di due strutture murarie che erano adibite al ricovero degli animali: la stalla di “Ngelotto” e poco lontano la stalla di “Norato” detto “Catenarciu” che ci teneva i cavalli. Architettura popolare, autoprodotta, che utilizza i sassi presenti in loco ed il legname del bosco, a terra si notano i segni delle canaline per allontanare l’acqua, verso il dislivello a monte le classiche murature a secco di contenimento del terreno.
Il fontanile è alimentato dall’acqua che filtra da un cunicolo drenante posto sul lato sinistro dietro la vasca, si riconosce anche il muro di fondo con una struttura in blocchi di pietra e malta che termina descrivendo un arco informe, al di sopra la vegetazione. Al centro del muro si nota un alloggiamento di 75 x 85 cm circa, profondo 10 cm, ben riquadrato: è lo stampo del bassorilievo con l’immagine della madonna ed iscrizioni, trafugato. L’acqua sgorga da un tubo di ferro e riempie un secchio di 5 litri in 2 minuti e 13 secondi (2.30 litri al minuto circa). A sinistra si nota un masso ben squadrato con al centro l’impronta scalpellata di un foro cilindrico di diametro 7 cm, sembra la fuoriscita dell’acqua, forse in epoca antecedente l’immissione del tubo di ferro. La pietra scalpellata ha la faccia di 22 x 23 cm, il piazzale è lastricato con scheggioni di basalto e bordato da stangoni di peperino squadrati (fig.2). Nei pressi un cartello ricorda l’ultimo intervento di recupero significativo su progetto della fondazione Euronatur che assegnò quindici anni fa al comune di Nemi il riconoscimento di “Comune Esemplare d’Europa” per la qualità delle politiche ambientali.

Scendendo, dopo una curva a destra, continuano le murature di sostegno del terreno montate “a secco” con pietra locale, selce e peperino incastrate ad arte (fig. 4). Poco dopo c’è un bivio: a sinistra si prosegue verso le antiche Mole dove si macinava il grano, davanti il sentiero si inoltra in una località detta “Pietrara” perché gli abitanti venivano a raccogliere i sassi che servivano per costruire le “macère”.

A circa venticinque metri dal bivio sulla destra si apre una vasca che si collega a due cunicoli con le pareti intonacate e sostenuti, il primo di fronte, da un arco in mattoni e l’altro a sinistra, da una piattabanda sempre in mattoni. La vasca di forma rettangolare irregolare, misura 2.30 m di larghezza per 3.00 m di lunghezza al netto dei muri (cm 40), ed è profonda 1.50 m, è piena d’acqua a metà: si sente lo sgocciolio dell’acqua nei cunicoli (fig. 5).
E’ solo una parte, visibile di un sistema di raccolta dell’acqua che ha garantito lo sviluppo del lavoro e la sopravvivenza della società rurale. Accanto, infatti, al vasto complesso delle gallerie filtranti (Vivavoce N.83/2009) che distribuiva l’acqua alla comunità di Genzano, esiste, nel bacino del lago, una rete che costituisce un sottoinsieme dei cunicoli più grandi dispersa tra i fondi privati. Tale rete è costituita anche da altre strutture di raccolta, di conserva e alimentazione antiche che innervano tutto il sottosuolo e delle quali sarebbe urgente uno studio più approfondito prima che se ne perdano le tracce ancora percepibili.
Utilizzando cunicoli preesistenti o scavandone di nuovi nella roccia ad inseguire le vene dell’acqua, i contadini riempivano cisterne e pozzi collegati da tubi in pendenza ed irrigavano i loro terreni con sistemi a caduta: mai fuori misura per evitare frane a valle.
Tutto aveva un ordine e tanto i fossi naturali tenuti in efficienza, quanto le opere costruite dagli agricoltori per la gestione del proprio lavoro formavano un saldo e funzionante sistema di utilizzo, di manutenzione, di bonifica e controllo del territorio e del paesaggio. Il paesaggio inteso come serie di elementi naturali e costruiti percepiti dagli abitanti, mutava nel tempo, accompagnando i lenti cambiamenti sempre in un rapporto armonico con l’ambiente circostante. “Il terreno fa la casa ma la casa non fa il terreno” si sente dire ancora oggi dagli anziani di Nemi: un modo di dire pieno di saggezza e rispetto.

Molti terreni dei contadini avevano delle vasche di raccolta dell’acqua derivata dai cunicoli filtranti: i “formali” e in questi terreni, detti “nacquativi”, si piantavano fiori (narcisi e poi crisantemi) e frutta mentre nei terreni poveri di acqua detti “seccativi” si coltivavano i “paglierini” che sono dei bei fiori gialli secchi nell’aspetto e la vigna.
Tutto era a sistema per la buona riuscita del lavoro si dovevano costruire le macère, incanalare l’acqua, drenare il terreno lavorare con forza ed arrivare a sera con la stanchezza di un combattimento quotidiano. Ma pochi oggi ricordano quell’immane lavoro quella fiera fatica dove tutto si teneva in equilibrio grazie al “sapere” dei contadini che avevano visto lavorare i padri e i nonni. E’ verosimile che data la presenza più in basso del Santuario alcune cisterne costituissero le riserve d’acqua di quella che fu un’imponente struttura politico religiosa ben prima dei Romani.
Risalendo il sentiero e tornando sulla provinciale che scende al lago, interrotta oggi per frane, si raggiunge lo slargo della cava dei “Ciocci” e la fontana delle “Pozza” con due vasche al lato della strada la più grande di 1.45 x 0.66 m al netto dei muri, la seconda più piccola è separata dalla prima da un diaframma di 7 cm, misura 50 x 66 cm. Qui cade l’acqua proveniente da una canalina laterale con tubo di gomma recente ma che era di coppi di laterizio simile a tutti quelli riscontrati nel vasto sistema di raccolta dalle gallerie filtranti; la bocca riempie 3 litri in 1 minuto e 44 secondi (1.7 litri al secondo circa) (fig. 6).

Questi fontanili, numerosi e ben conservati un tempo, sono dislocati lungo le vie di collegamento tra la campagna ed il paese; ristoravano gli uomini e le bestie di ritorno dal lavoro a casa ed alle stalle concedendo una pausa ed un momento di riposo. Simili nella tipologia e con uguali caratteristiche costruttive sono comunque diversi gli uni dagli altri, vederli da lontano o dopo una svolta dava sollievo e conforto. Nell’insieme sono monumenti dell’arte popolare e ricordano anche a chi, trascurandoli, ne decreta la morte che lo sforzo per la sopravvivenza dei nostri antenati da cui dipendiamo è ancora visibile ed ha il diritto culturale all’esistenza.
Circa dieci anni fa per celebrare queste storie di semplice vita quotidiana, in ricordo del sacrificio della fatica e del lavoro di generazioni di persone, fu costruito un fontanile in piazza Umberto 1° oggi rimosso (fig. 7).

L’abbandono delle vie d’acqua, la rimozione del moderno fontanile che ricordava fino a qualche anno fa un sistema complesso, cancellerà lentamente dalle menti dei cittadini i valori della collettività e dei suoi beni: i proprietari dell’ambiente, dell’acqua, del paesaggio non saranno più le genti, ma gli occasionali interessi di singoli.

Si ringraziano Vairo Canterani, Rossano Palazzi e Claudio Gismondi per le informazioni legate ai nomi ed ai fatti della vita locale.

scritto da Franco Medici |

Per la rubrica Beni culturali – Numero 92 giugno 2010
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Infiorata 2010 Omaggio a Caravaggio

Nall’ambito delle celebrazioni per i 400 anni dalla morte di Caravaggio, l’Infiorata di Genzano celebra il grande artista lombardo, scomparso prematuramente a soli 39 anni, per il quale Roma rappresentò il momento di massimo fulgore artistico e maturità espressiva..
Una pittura fortemente innovativa, che rompe prepotentemente con la tradizione manieristica del ’500, elaborando, in stilèmi totalmente nuovi, l’antica arte classica e del Rinascimento.
Una rivoluzione pittorica che si espanderà nei cosiddetti Caravaggeschi, fin oltre la metà del ’700, diffondendosi in Italia ed all’estero: un modo “ardito” e nel contempo pervaso di umiltà, nel raccontare per la prima volta i grandi temi sacri interpretati da contadini e popolani, in un gioco di bui e luci dirompenti che scompongono la visione naturalistica per farne “racconto di sentimenti”.

L’impianto scenografico dell’Infiorata ” Omaggio a Caravaggio”

È indubbiamente difficile associare la pittura di Caravaggio alle leggiadre composizioni ed ai cromatismi dei tappeti floreali dell’Infiorata di Genzano. Ricordo di aver detto, all’inizio di questo lungo percorso, nei colloqui con i Maestri Infioratori, che dedicare un’Infiorata a Caravaggio era prima di tutto una sfida. Sfida nell’elaborazione di quei bui bituminosi nei quali affondano o si stemperano le scene caravaggesche: pochi colori, tante ombre, moltissimi riverberi di luce.
E poi il taglio narrativo scelto per raccontare in 12 tappeti, tre intermezzi e nelle cosiddette “Scalette”, un’avventura artistica di ineguagliabile intensità e prorompente pathos.
Più che mai necessario, a mio avviso, un impianto architettonico, un contenitore di forme e geometrie che legasse i cicli narrativi, creando in una visione d’insieme, una sorta di “quadreria del ’600″, deposta curiosamente lungo una via che sale, creando un museo all’aperto, nel quale il visitatore potesse immergersi senza mai interrompere il racconto, dall’inizio di Via Livia, fino all’apice, sotto la Chiesa della Cima, dalla quale parte la processione che attraversa solennemente l’Infiorata nella Festività del Corpus Domini.
Da questa esigenza di racconto unitario, sono nati i cinque cicli che emblematizzano l’opera di Caravaggio, fino all’omaggio ad un artista postcaravaggesco, Carlo Maratta, (1625-1713) che seppur formatosi alla scuola dei Carracci, conserva ancora in molti impianti cromatici e nei volumi, la dirompente forza e intensità del maestro lombardo.
Un modo quindi di tracciare una ” eco caravaggesca”, per tutto ciò che Michelangelo Merisi ha lasciato alla pittura, rendendo inoltre omaggio ad un maestro della Scuola romana tra ’600 e ’700, il Maratta, che soggiornò a Genzano negli ultimi anni della sua vita.
Un omaggio doveroso non solo a due capiscuola della pittura italiana, ma anche alla pittura in senso lato, alla bellezza e al “miracolo” che ogni anno si compie, da quel lontano 1778, di un’arte che si fonde in un’altra, fatta di fiori, essenze vegetali, semi e materie “segrete”, che paiono uscire dalle alchimie della Dea Flora.

I cinque cicli narrativi e le opere di Caravaggio e Maratta rappresentate nell’Infiorata 2010

Le nature morte e i ritratti profani
Un ciclo che caratterizza le opere giovanili di Caravaggio, influenzate ancora dalla frequentazione della bottega del pittore milanese Peterzano, detto il Veneziano e dalle scuole lombarde del Moretto e del Lotto. Dipinti improntati sulla minuziosa narrazione della natura e da una ritrattistica allegorica che ancora attinge al mito.
Celebri ritratti quali il «Ragazzo morso da un ramarro», dove una luce soffusa e chiara stempera la drammaticità della smorfia di dolore del giovane; nature morte dai colori vivaci e solari, come nella celebre «Cesta di frutta» del 1596 (Pinacoteca Ambrosiana, Milano), opera giovanile ma che già si pone in modo innovativo nei riguardi della tradizione fiamminga.
Non più il minuzioso “racconto” di petali, foglie e fiori, ma un naturalismo che fa del colore e della luce il tracciato espressivo verso un nuovo modo di “raccontare la natura”..

Il Sacro scende tra il popolo
Con i cicli di San Luigi dei Francesi e Santa Maria del Popolo, il sacro entra a far parte dell’iconografia caravaggesca. La raffigurazione naturalistica si carica di tensione espressiva, ed ogni racconto è “catturato” in una sorte di “culmine espressivo”. Le ombre si offuscano, lottando con luci che irrompono violentemente. I bagliori esaltano dettagli e significati, mentre il “Sacro scende nelle strade”. Opere drammatiche, martìri e dolore che emergono da fondali quasi neri, come nella ” Flagellazione di Cristo”. Santi e contadini dalle mani callose, volti segnati dalla fatica, popolane, umili donne, attorno a un Cristo pensoso e lontano, che ritroviamo nella “Cena di Emmaus”, del 1606, o nella tenerezza della giovane Vergine col bambino del “Riposo nella fuga in Egitto” del 1595.

Gli Angeli della rivelazione
Gli Angeli dipinti da Caravaggio sono portatori di luce e di salvezza. A cominciare dall’Angelo musicante, ritratto di schiena, che allieta il “Riposo nella fuga in Egitto”, al quale idealmente è affidata l’apertura della teoria di tappeti che compongono l’Infiorata.
O l’angelo barocco, raffigurato con le vesti scomposte in volute di veli, nel “San Matteo e l’Angelo” di San Luigi dei Francesi..
Angeli sublimi e tremendi patimenti, nella concretezza di una narrazione che non lascia scampo e, nel contempo, “attende la rivelazione e la salvezza”.

Gli intermezzi musicali : I dettagli: messaggeri di luce
Un tema, quello dei dettagli, al quale Caravaggio riserverà sempre un posto d’onore. Dettagli che emergono dalla luce, lembi di tovaglie di candido lino, frammenti di pane, decori di un elmo visto in penombra, delicate perle cadute sul pavimento, ai piedi di una “Maddalena penitente”, di straordinaria compostezza e malinconicità.
Dettagli che si fanno “racconto nel racconto”; così gli spartiti musicali, il violino, o lo stesso liuto dell’opera “Ragazzo che suona il liuto” dell’Ermitage di Leningrado, assunti quale tematica degli “Intermezzi musicali” che contrappuntano i 12 tappeti floreali che compongono l’Infiorata.
Un omaggio alla forza espressiva e spirituale della musica, così presente nell’iconografia caravaggesca.

Omaggio a Carlo Maratta

Al pittore Carlo Maratta, che può essere annoverato tra quegli artisti che mostrano chiare influenze caravaggesche, l’Infiorata rende un particolare omaggio, celebrando la sua presenza a Genzano, negli ultimi anni di vita, dove visse, con la figlia Faustina, in quel “Casino Maratta” che ancora si affaccia su via Livia.. Raggiunta Roma, città alla quale affidò gran parte della sua vasta produzione artistica, diede vita a quell’Accademia romana che, dalla seconda metà del seicento, impose un indirizzo classicheggiante alla cultura ed all’arte del tempo. Fu ritrattista eccellente, ma anche scenografo e decoratore, come testimoniano gli affreschi monocromi eseguiti in Vaticano nella Stanza di Eliodoro, intorno al 1670. La sua bellissima figlia Faustina, colta poetessa, nel breve soggiorno genzanese, animò lo studio del padre con un cenacolo di artisti e letterati.
Donna di grande fascino e finezza intellettuale, fu “violata” purtroppo dal rapimento voluto dal Duca Giangiorgio Cesarini, invaghitosi di tanta grazia e beltà.
L’accadimento drammatico e la vergogna, costrinsero Carlo Maratta ad abbandonare Genzano nel 1710 e a ritornare con la figlia a Roma, dove la morte lo raggiunse nel 1713.
Due le opere di Carlo Maratta che saranno raffigurate sulle “Scalette”, a coronamento dell’Infiorata: l’autoritratto del pittore, e l’intenso ritratto della figlia Faustina nel quadro allegorico ” La Pittura”.

scritto da Susanna Rossi Esser |

Per la rubrica Beni culturali – Numero 91 maggio 2010 di VivaVoce Rivista d’area dei Castelli Romani

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Infiorata 2010 Genzano di Roma

Infiorata - Genzano di Roma

Anche quest’anno nel mese di Giugno verrà realizzata la storica Infiorata di Genzano di Roma. La festa è originariamente collegata alla celebrazione cristiana del Corpus Domini la cui tradizione si tramanda da più di due secoli.

Quest’anno la tematica dei quadri composti da oltre 350.000 fiori ed essenze vegetali sarà un omaggio a Michelangelo Merisi detto il Caravaggio.

La manifestazione si articola in vari fasi: l’ideazione e la preparazione del bozzetto, la raccolta dei fiori e delle essenze vegetali, lo “spelluccamento” - separazione dei petali dalla corolla e loro conservazione nelle grotte del Comune – i disegni a terra (il sabato sera), la posa in opera dei petali (la domenica mattina), l’Infiorata completata (primo pomeriggio della domenica), la Processione del Corpus Domini (domenica sera), ed infine lo “spallamento” - quando i bambini correndo dalla scalinata della Chiesa di Santa Maria dìsfano i quadri infiorati. (Cit.)

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