MARINO una ricca signora antica che richiede una maggiore attenzione…

MARINO

Una ricca signora antica che richiede una maggiore attenzione…

Un insediamento allungato, attraversato da una spina centrale (corso Trieste e via Cavour) che lo mette in comunicazione con il sistema dei Castelli Romani: si ha l’idea percorrendola – in salita o in discesa a seconda da dove si imbocca – di attraversare un “ventre” aperto in cui penetrano luce e vita. La gente che cammina, le auto che si muovono, i vicoli che si attanagliano al corso con le scalette e i panni stesi; l’idea è di movimento, di un contesto urbano vivace che fa ben trasparire le sue dimensioni abitative (circa 38.000 abitanti) e il suo ruolo centrale nel sistema dei Castelli Romani.
Una popolazione in incremento continuo dal 1861, ha cominciato a vedere un momento di rallentamento nel 2001; la presenza di stranieri, per circa un 4% dei residenti, è in linea con i livelli di consistenza che si registrano sul territorio provinciale.
Lungo l’asse di attraversamento – la vecchia Strada Larga (attualmente corso Trieste) realizzata verso la metà del 1600 per iniziativa del Cardinale Girolamo Colonna in concomitanza con la costruzione della Basilica di S. Barnaba – emergono alcuni significativi nodi, costituiti da altrettante piazze, che tendono a significare la consistenza di un agglomerato urbano rilevante.
La prima, provenendo dalla Statale 216, è la piazza Matteotti, dove trova posto la seicentesca Fontana dei Quattro Mori, progettata da Pompeo Castiglia nei primi anni del 1600, dalla quale durante l’annuale Sagra dell’Uva, principale festa del paese istituita dal 1924, sgorga vino anziché acqua.
Sulla piazza emergono visibilmente le torri che restano dell’antica Rocca dei Frangipane: incluse e circondate da nuovi edifici mostrano, con forza, la loro parte alta – quella consentita dal fatale abbraccio con il moderno – a mo’ di sentinella della storia della città.
Scendendo, si incontra il nodo centrale, il nodo delle grandi dimensioni che comandano sul tessuto minuto dell’abitato, costituito da due piazze: piazza Lepanto, che mostra da un lato l’imponente palazzo Colonna (costruzione iniziata nel 1532 dal Sangallo), in parte occupato dalla sede del Municipio, e piazza S. Barnaba, dominata dalla significativa mole del Duomo, con affaccio sulla campagna circostante.
L’ultimo nodo è costituito dalla bellissima piazza Garibaldi, che un tempo ospitava il mercato; un giardino centrale fiancheggiato ai lati da due chiese – la chiesa del Rosario e quella della Madonna delle Grazie – con annessi conventi, uno dei quali è stato trasformato in ostello della gioventù.
Questa testata di corso Trieste assume il ruolo di momento di rarefazione e sembra fare da controcanto a piazza Matteotti, quasi a rimarginare, insieme, la ferita inferta alla continuità della spina dal potente nodo centrale. Il traffico si rarefà, dominano i pedoni e la fontana immersa nel verde insiste a segnare la logica centrale della piazza che, con le scale che la attanagliano ai fianchi, completa lentamente il percorso della Strada Larga, quasi a voler riassorbire la velocità consentita dal tratto centrale.
Si percepisce la ricchezza del patrimonio, come quella di una signora antica, infranta, però, da una trascuratezza che sembrerebbe richiedere una maggiore attenzione per la manutenzione urbana sia per l’edilizia privata che per alcuni luoghi di interesse pubblico, come i portali dell’antico giardino e il vasto belvedere della piazza della stazione, dal cui affaccio emerge l’affascinante muraglia delle cave di tufo, ormai improduttive, assediate dai moderni edifici che, disposti a spina, ne seguono l’andamento planimetrico.
Si ha la sensazione che questo patrimonio meriterebbe di più per poter esplicare appieno il suo valore e le sue potenzialità. Alcuni lavori di riqualificazione sono in corso. Tra essi, quella del sistema commerciale, soprattutto della via principale – che appare di scarsa qualità, sia come offerta di prodotti che come strutture (insegne, vetrine, ecc.) – potrebbe costituire un punto di appoggio importante per l’avvio di operazioni di rinnovo urbano.

scritto da Manuela Ricci |

Per la rubrica Centri Storici – Numero 70 aprile 2008
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MONTECOMPATRI l’austera – Una molteplicità di “stili”urbani compatti e ordinati

MONTECOMPATRI l’austera

Una molteplicità di “stili”urbani compatti e ordinati

La stratificazione edilizia di diversi periodici storici caratterizza numerosi comuni dei Castelli Romani, ma in nessuno sembra così “ordinata” come a Montecompatri, in successioni che, come in una sorta di spirale, vanno dal periodo più recente a quello più lontano.
Nella parte più antica e più alta (poco più di 500 mt) insiste il cosiddetto Borgo del Ghetto, con una piccola e raccolta piazza a cui si accede dal sistema della piazza del Duomo, di origine seicentesca e ampliato nell’ottocento.
Un centro storico, dunque, che vede una molteplicità di presenze di “stili” urbani, ma compatti e ordinati; colpisce il senso di austerità che proviene dall’organizzazione edilizia, dalla tessitura e dal colore dei materiali.
Anche se lo stato di conservazione dei manufatti non è perfetto e presenta alcune discontinuità, si avverte un senso di cura sia da parte degli abitanti che da parte dell’amministrazione – alcuni lavori di sottoservizi e di ripavimentazione stradale sono in corso – che si esplicita anche nell’intenzione, recentemente espressa, di realizzare nel centro storico un centro commerciale naturale.
Tre anelli gli girano intorno formando e definendo gli strati storici. Il primo è quello delle vecchie mura medioevali, di cui sono rimaste poche tracce, che racchiude il Borgo del Ghetto; il secondo è la via Placido Martini e la via Carlo Felici ancora interna al centro storico; la terza è costituita da viale Cavour, viale Europa e via Adolfo Croce che lo lambiscono ai margini del nuovo.
Tra gli ultimi due anelli esiste una serie di comunicazioni che si realizzano attraverso un sistema di scalette ricorrenti: sulla via Placido Martini si aprono una serie di portali da cui partono le scale, che aprono mirabili visuali verso la campagna. Quando il tempo è sereno è un vero spettacolo per gli occhi, Palestrina, i Monti Simbruini, le prime propaggini delle catene montuose dell’Abruzzo e la Valle del Sacco. Queste visuali si aprono anche in quelle “terrazze sull’infinito” che sono presenti in quasi tutti i Castelli Romani, ma mai con la frequenza con cui si presentano a Montecompatri, inducendo nel visitatore un senso continuo di sorpresa che si apre tra i vicoli.
Quando c’è la nebbia, le visuali sulla campagna scompaiono in una sorta di manto ovattato di cui appare ammantato tutto il centro storico; allora a governare le emozioni è come un senso di isolamento in cui il centro stesso appare immerso nel distaccarsi dalla terra.
La storia di Montecompatri è anche una storia di acqua, di cui per primo si fece protagonista Scipione Borghese, nipote di Paolo V, a cui il Papa affidò il Principato di cui faceva parte Montecompatri e che derivava dalla trasformazione, tramite Bolla, del vecchio feudo.
Una storia che ha visto il trasporto dell’acqua dalla valle fino al Borgo del Ghetto attraverso una serie di gallerie e di fontane. La prima fu la vasca in sperone – splendido materiale vulcanico che “colora” molti edifici, ornati e portali del centro storico – che portò l’acqua dalla Molara davanti al palazzo Borghese, la cui edificazione fu iniziata dagli Altemps. Nel 1852 la fontana, su progetto dell’architetto Massimi, fu incastonata in un’edicola di pietra sperone, e fu successivamente dismessa quando venne realizzata la Fontana dell’Angelo. Quest’ultima è collocata in piazza Mastrofini, nella parte bassa del comune, nel cosiddetto Borgo della Prata, da cui si apre una stupenda passeggiata fiancheggiata da secolari lecci, specie arborea autoctona dei Castelli che qui sopravvive, oltre che in alcune “terrazze sull’infinito”, e che in molti altri comuni dei Castelli è stata sostituita dal castagno.
Quasi 10 mila abitanti; orgini pre-romane; un dialetto, quello monticiano, che conserva ancora molte parole latine, una realtà che va ad essere integrata da culture diverse: soprattutto nel Ghetto si concentrano, infatti, numerosi residenti immigrati, provenienti per la maggior parte dalla Romania, che contribuiscono a una crescita demografica senza soluzioni di continuità nonché a fornire manodopera all’agricoltura ed edilizia locale.
Una comunità aperta, anche a un gemellaggio con la Calahorra (Spagna), capace di contaminare usi e costumi; una comunità che ama i suoi luoghi e che vuole conservarli, anche nel cambio dell’utilizzazione di alcuni spazi caratteristici, come avviene per le grandi cantine che spesso, vengono trasformate in luoghi di richiamo turistico o in spazi di aggregazione per associazioni.

Si ringraziano Amalia Dominicis e Giovanni Schina – Segeretaria e Direttore dell’ArcheoClub di Monte Compatri per la cortese e preziosa collaborazione offerta alla stesura del presente articolo

scritto da Manuela Ricci |

Per la rubrica Centri Storici – Numero 78 febbraio 2009
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ROCCA PRIORA l’insediamento più alto dei Castelli Romani tra storia, ampiezza di sguardi, verde e aria pura

ROCCA PRIORA

l’insediamento più alto dei Castelli Romani tra storia, ampiezza di sguardi, verde e aria pura

I bellissimi prati del Vivaro, con il campo d’equitazione, e il bosco del Cerquone, rarissimo esemplare che conserva la vegetazione spontanea dei luoghi prima che fosse sostituita dagli impianti di castagni, scansionano l’accesso a Rocca Priora. Più di 11 mila abitanti, situata a 786 mt sul livello del mare e articolata attorno a un interessante borgo storico, è l’insediamento più alto dei Castelli Romani.
«Arroccato sul crinale settentrionale della grande cerchia esterna del massiccio vulcanico laziale, dominava da una parte la via Prenestina e dall’altra la vetusta via Latina che la decadenza e l’abbandono dell’Appia antica avevano fatto passaggio obbligato verso Velletri, Terracina, Gaeta e Napoli, attraverso le fitte selve della Faiola e dell’Algido», così scriveva R. Lefreve nell’introduzione allo Statutum Communitatis Universitatis et hominum Castris Rocheprioris, documento risalente al 1547 con il quale Rocca Priora si affaccia, di fatto, sulla scena dell’età moderna.
Un’alternanza di presenze e di domini ne scandisce la storia dall’età romana – molti storici fanno coincidere l’abitato di Rocca Priora con il sito dell’antico centro latino di Corbium – fino alla sua costituzione come comune nel 1870; l’edificazione di una villa romana, il piccolo nucleo abitato del secolo XI, Castrum Arcis Perjuriae, dai conti Tuscolo, agli Annibaldi, ai Savelli, alla Camera Apostolica alla fine del ’500.
Soprattutto nel periodo medioevale (il Nibby data a dopo il 1191, contemporaneamente alla distruzione di Tuscolo, la nascita del paese medioevale) Rocca Priora comincia a configurarsi con le caratteristiche del borgo, con l’edilizia minuta a schiera che segue le curve di livello e la struttura viaria, per essere poi “forzata” da significative emergenze architettoniche che aggiungono una nuova scala all’edificato residenziale: il castello Savelli (ricostruito nel 1880 da Virginio Vespignani), oggi sede del municipio, e la chiesa dell’Assunta, che risale al XV secolo.
Venendo da piazza Zanardelli, si ha la sensazione di essere sospesi in un luogo magico, con una finestra completamente aperta sulla valle che prospetta la significativa presenza dei nuclei storici di Montecompatri e Colonna. Girando lo sguardo il Maschio d’Ariano chiude il sipario dell’ampio e verde panorama, distogliendo lo sguardo dal quale si incontra la piena facciata posteriore del castello che fa da snodo tra piazza Zanardelli e piazza Umberto I, la più importante del borgo.
Il passaggio tra le due piazze, accompagnato da via Francesco Giacci, segue l’edificio del vecchio palazzo Marcucci che continua in un tutt’uno con il campanile della chiesa dell’Assunta.
La compresenza di grande (il sistema palazzo-chiesa-castello) e piccolo (l’edilizia residenziale) dipana un gioiello prezioso che come una conchiglia consente al visitatore di entrare negli stretti vicoli in cui si sente avvinghiato e trascinato a continuare il percorso perché sa che comunque non potrà perdersi.
L’assenza completa di auto contribuisce a conservare bene l’aurea di antico all’insediamento, che è abbastanza curato sia nell’edilizia privata che nelle vie e negli spazi pubblici.
La medioevale porta del castello (arco ogivale), sul lato occidentale del paese, apre sulla campagna, fungendo da cerniera tra il nucleo più antico e l’insediamento alle pendici del colle e accogliendo le risonanze dei nuclei storici di Montecompatri e Colonna, emergenti dalla campagna sulle loro piccole colline, che già avevano evidenziato la loro presenza dalla piazza Zanardelli.
Nel passato Rocca Priora conservava e vendeva neve. Nell’immediata periferia si incontra, infatti, la chiesa dedicata alla Madonna della neve, costruita con le donazioni degli appaltatori delle nevi.
Oggi Rocca Priora offre storia, ampiezza di sguardi, verde e aria pura, elementi altrettanto preziosi per una civiltà come quella odierna, e di questo può fare certamente il suo punto d’orgoglio.

scritto da Manuela Ricci |

Per la rubrica Centri Storici – Numero 72 giugno 2008
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COLONNA Un piccolo insediamento, sospeso nell’ampio paesaggio che domina, costituito da campagna e vigneti a cui fanno da sfondo i monti Tiburtini, Prenestini e i Colli Albani

Colonna

Un piccolo insediamento, sospeso nell’ampio paesaggio che domina, costituito da campagna e vigneti a cui fanno da sfondo i monti Tiburtini, Prenestini e i Colli Albani

Un piccolo insediamento, sospeso nell’ampio paesaggio che domina, costituito da campagna e vigneti a cui fanno da sfondo i monti Tiburtini, Prenestini e i Colli Albani: Colonna guarda a sé stesso e alla sua gente come una mente che riflette consapevole della propria ricchezza e del proprio ben stare, in un mondo globalizzato che incessantemente tende a erodere anche gli ultimi baluardi di posti “nascosti”. Un baluardo che Colonna tende a difendere a partire dai ripetuti bombardamenti della seconda guerra mondiale.
Più degli altri centri storici dei castelli romani, Colonna appare ancora nel suo habitus originario, con i suoi abitanti, i suoi tempi, i suoi luoghi sui quali sembrano aver poco inciso l’irrefrenabile trasformazione degli insediamenti e le forti pressioni del mercato immobiliare con le conseguenti sostituzioni di funzioni e di residenti.
Circa 3.500 abitanti, il paese, che sorge su un’altura di origine vulcanica a 343 metri sul livello del mare, vanta origini molto antiche che si fanno risalire, in base al ritrovamento di numerosi reperti, all’età del Bronzo.
L’etimologia del nome viene fatta derivare dalla Colonna del Labicum Quintanense – dove si stabilì la popolazione dell’antica Labico dopo la sconfitta a opera di Quinto Servilio Prisca nel 414 a.C. – che diede il nome al castello costruito sul vicino colle, oggi corrispondente al centro storico del paese.
Situato nel Parco regionale dei castelli romani, è, oggi, un centro prevalentemente agricolo che vanta la produzione di rinomati vini DOC. Ma la storia gli ha assegnato anche ruolo militari: importanti insediamenti romani e un palazzo fortificato per il casermaggio delle truppe (palazzo Baronale della famiglia Colonna), nonché sede di un comando militare tedesco.
Il vecchio borgo, che ha origini intorno agli anni mille, segue l’andamento ad anello delle vecchie mura (risalenti a qualche anno dopo il 1200) che si sono successivamente trasformate in piccoli edifici (prevalentemente a due piani) a costituire un’affascinante quinta continua, che irretisce in un bozzolo. Ma il bozzolo sembra, poi, dipanarsi in un secondo anello, concentrico al primo, formato dalla circonvallazione, che si apre sul magnifico paesaggio, producendo a sua volta una quinta, meno suggestiva della prima, ma comunque strutturante l’insediamento.
Le dimensioni dei punti di eccezione che escono dalla struttura dell’edificato residenziale raccontano una storia di contrasti, ma allo stesso tempo di intrusione: la chiesa di San Nicola e il palazzo Baronale emergono dal minuto e raccolto contesto insediativo trovando, però, con esso legami e connessioni che ne costituiscono tutta la ricchezza narrativa.
Dalla piazza Vittorio Emanuele parte la salita che man mano si restringe facendo da quinta al Castello che appare in tutta la sua levatura, sormontato dalla torretta con orologio. La grana dei materiali del potente edificio produce contrasto e forza vitale alle differenti parti del contesto insediativo: grezzo e scuro il bugnato del palazzo, intonacati e diversamente colorati i piccoli edifici che gli fanno da quinta. Incuriosisce e stupisce la parte del cortile interno, purtroppo coperta da un serbatoio dell’acqua di dimensioni prorompenti, che mostra, anche se in uno stato avanzato di degrado (ma è in corso un progetto di recupero), due bellissimi ordini di arcate con colonne in peperino.
D’altro canto, la chiesa di San Nicola, situata anch’essa in posizione elevata, emerge con forza, con il suo intonaco giallo, dal tessuto storico mostrando la sua pienezza classicamente settecentesca (edificata nel 1757).
Percorrendo l’antica via dei Monti, all’imbocco della quale è situato l’ingresso della villa del Duca di Gallese, ci si ritrova nel nucleo originario del centro, con piccole cantine e portoni che accedono ai due piani degli edifici.
Il Parco Tofanelli fa da barriera di chiusura al centro, verde e ben curato, rafforza l’idea di un contesto dove la qualità della vita è rispettata e dove viene conservato con cura il segno di altri tempi di vita rappresentato dal vecchio Fontanile della Maranella, recentemente restaurato.

scritto da Manuela Ricci |

Per la rubrica Centri Storici – Numero 74 settembre 2008
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VELLETRI complicata, complessa, intricata

VELLETRI complicata, complessa, intricata

Una città complicata, complessa, intricata, posta a circa 350 metri su un colle di formazione lavica a forma di scudo: esito di una storia che si è dipanata nel tempo facendo di questi luoghi, alternativamente, centro di poteri e spazi di abbandono e di distruzione, incrocio di popolazioni e di conflitti; una città, in cui risiedono attualmente più di 50 mila abitanti, su un territorio di circa 113 kmq che molti ritengono improprio considerare come uno dei castelli romani.
Dai latini, agli etruschi, ai volsci, ai romani, ai vescovi, ai bombardamenti della seconda guerra mondiale, alla ricostruzione: è una storia che ha prodotto strati di edificato, che ha disegnato le campagne, che ha generato “culture”, in tema di produzione agricola (San Pietro in Formis è stata una delle più grandi aziende agricole medioevali, con la quale la città di Velletri ha intessuto per secoli stretti rapporti sociali e produttivi; alla fine dell’800 la città diventa polo di ricerca per l’enologia), di realizzazione di opere pubbliche (gli etruschi vi applicarono le loro tecnologie dell’arte idraulica per mettere a coltivazione i territori paludosi) e di governo urbano (le prime tracce di Statuti comunali risalgono alla fine del ’200 e vengono riformati nella prima metà del ’500).
La sua posizione strategica, a presidio delle vie del meridione, le ha conferito un rilevante peso politico e militare nel corso della storia: da fronte sud delle linee commerciali tra la Casilina e la strada litoranea (VI sec.), a propaggine settentrionale del regno dei Volsci che ne fanno un baluardo contro l’espansione a sud di Roma, a nucleo della triangolazione di importanti santuari (Palestrina, Monte Cavo, Satrico).
Una città che si è fatta vanto della capacità di governare la sua indipendenza; il suo statuto, infatti, faceva espresso divieto ai cittadini di avere interessi con i baroni romani.
Di tutto questo rimangono brandelli, alcuni facilmente riconoscibili, altri nascosti e inglobati nel nuovo che è cresciuto, altri dispersi e non più rintracciabili; ri-costruire la storia urbana di Velletri, rintracciandone senso e luoghi, è come una grande caccia al tesoro.
L’attuale centro storico, in cui risiedono molto meno di 10 mila abitanti, “tradisce” in pieno il suo impianto medioevale, periodo in cui Velletri fu uno dei pochi liberi comuni del Lazio e dell’Italia centrale e una delle pochissime città a conservare una propria vita cittadina. All’impianto medioevale si sono giustapposte le sistemazioni del ’500 e ’600 che non ne hanno modificato sostanzialmente la struttura.
“L’impianto urbanistico era ancora quello del primo medioevo, una via principale che taglia da nord a sud l’abitato; quattro vaste piazze principali; un intrico di strette vie e vicoli, rarissimamente ad andamento rettilineo (retaggio di esigenze difensive) con abitazioni, stallaggi, rimesse e botteghe fittamente connesse le une alle altre. Soprattutto nei quartieri meridionali (che rappresentano l’insediamento delle più lontane origini) questa disposizione derivava direttamente dai periodi in cui le famiglie più ricche e cospicue edificarono veri isolati-fortezza, con i masti e le torri ancora svettanti a far concorrenza ai campanili”. (Massimo Fabi, Velletri nel ’500).
Il centro ha mantenuto la sua struttura anche a seguito della ricostruzione avvenuta dopo la seconda guerra mondiale, durante la quale più dell’80% degli edifici originari sono andati perduti.
Si avverte con chiarezza che, nella riedificazione postbellica, il centro storico non è stato uno degli oggetti principali d’interesse dell’amministrazione e dei cittadini.
Con i contributi dei danni di guerra, la popolazione, per la maggior parte contadina, ha preferito sistemare i fondi rustici stabilizzandosi nei “tinelli” della campagna – dove, peraltro, era solita vivere, al di là dei pochi mesi all’anno da trascorrere nella casa di “città” – costruendo ex novo o rimaneggiando le vecchie case rurali in cui si era rifugiata durante il conflitto.
La campagna è stata il luogo d’elezione per la vita quotidiana e il buon abitare; il centro storico non è sembrato meritevole di affezione urbana. Qui hanno investito artigiani e piccoli proprietari dando luogo alla realizzazione di un’edilizia piuttosto povera, forse l’unica possibile in quel momento ed è quella che oggi lo caratterizza prevalentemente, al di là di piccoli e attenti recuperi di alcuni palazzetti.
L’asse maggiore dell’antica via Corriera che correva tra le due porte principali (la Porta napoletana è stata ricostruita) guida ancora la giacitura principale della città. Il palazzo comunale, edificato a partire dal 1575 su progetto di Giacomo Della Porta, allievo del Vignola – completato nella metà del ’700 e completamente ricostruito dopo la guerra – domina la città dalla sua piazza rettangolare che appare un concentrato di quei poteri che, una volta, avevano fatto di Velletri un’esemplarità di governo urbano e che oggi rispecchiano semplicemente le articolazioni di tutti i governi e poteri locali del nostro Paese: il palazzo dell’amministrazione comunale, la prefettura, le due chiese (tra cui il singolare edificio bramantesco della Madonna del sangue) che formano vere e proprie quinte sceniche. Come in un teatro si dipana la scena della vita cittadina che guarda la sua storia affacciandosi sulla pianura Pontina, sullo sfondo dei monti Lepini, alla ricerca virtuale delle mura perdute.
Di qui, per la via del Comune si arriva a piazza Cairoli, dominata dalla singolare Torre del Trivio, campanile della chiesa di Santa Maria Assunta rimasto isolato nel XVII secolo in seguito alla ricostruzione dell’attigua chiesa: uno dei pochi monumenti rimasti inviolati durate in periodo bellico: in fondo alla piazza, una fontana ricostruita e un edificio a quinta – realizzato negli anni sessanta nell’area dove era stato edificato, alla fine del ’600, il palazzo Ginnetti – frutto di un accordo con l’amministrazione, che in cambio ha ottenuto un bellissimo parco per la città.
La Basilica di San Clemente, importantissima chiesa del mondo cristiano, oggi restaurata, è una delle ricchezze di Velletri; di qui si arriva all’area della ex Caserma, con stupenda vista sulla valle, che attende ancora di essere riutilizzata per la città.
In questa storia complessa e importante, di cui sono state segnalate soltanto alcune tracce, Velletri inizia la sua decadenza alla fine del ’600, quando comincia ad adagiarsi nella sua opulenza e la gestione urbana diventa una routine. Nei periodi successivi viene comunque sviluppato il tentativo di mantenere l’economia e il suo essere città: già dall’800 Velletri raggiunge l’eccellenza di polo giudiziario e di istruzione.
La tragedia della seconda guerra mondiale vede allontanarsi molta popolazione, Velletri si svuota. Si frantuma lo stato sociale imperniato sulla tripartizione signori-propietari terrieri-artisti, accanto ai braccianti stagionali; i conduttori delle “colonie” acquistano le terre, si cominciano a vedere i braccianti, compaiono le prime fabbriche a Latina e a Pomezia, le “grandi famiglie” lasciano la città. Velletri diventa un grande paese.
Riconquistare la storia e ri-creare una nuova immagine, reinterpretando l’autonomia liberista del passato, in termini di capacità di governo e di promozione dell’economia locale: è questa la sfida che la città si trova oggi ad affrontare.

Si ringrazia Massimo Fabi per gli elementi di conoscenza forniti sulla storia della città.

scritto da Manuela Ricci |

Per la rubrica Centri Storici – Numero 76 novembre 2008
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